Matthieu Pastore, tra mito e cronaca: il teatro come specchio dell’invisibile
Nato a Lione da una famiglia cosmopolita, Matthieu Pastore porta in sé una mappa di origini e migrazioni che sembrano già un preludio al suo modo di intendere il teatro. «Ufficialmente sono mezzo francese e mezzo italiano – racconta – ma il mio cognome è siciliano, da un ramo emigrato in Tunisia. Mia madre, Sanchez, è spagnola, nata in Marocco. Mio padre, invece, è francese ma anch’egli nato in Tunisia».
Una costellazione di identità, lingue e storie che lo accompagna da sempre e che ritorna, sotterranea, anche nei suoi testi.
Formatosi alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, Pastore è oggi attore e drammaturgo riconosciuto: ha vinto il premio Hystrio sia per la recitazione sia per la scrittura – un caso raro. Dopo anni di lavoro come interprete, ha iniziato a dedicarsi sempre più alla drammaturgia, un territorio che gli consente, dice, «di assumersi pienamente la responsabilità delle proprie parole».
Il suo nuovo progetto, La bête de Versailles, nasce dall’antica leggenda della “Bestia del Gévaudan”, una creatura misteriosa che nel XVIII secolo terrorizzò la Francia profonda. «È una storia che mi affascina fin da bambino», spiega. «I miei genitori mi portarono a Mende, nel cuore del Gévaudan. Gli abitanti si sentono ancora eredi di quella leggenda: per loro non è un mito, è memoria viva. Ma ciò che mi interessa non è la cronaca della bestia, bensì il modo in cui la si racconta, la rappresentazione».
Pastore rilegge la vicenda come una riflessione sul potere e sull’animalità che lo abita: «Luigi XV, preso in giro dalle gazzette europee perché incapace di fermare la bestia, rappresenta un potere che tenta di dominare la natura ma finisce per incarnarne la ferocia. C’è qualcosa di profondamente maschile, legato alla forza e al controllo. È questa la vera “bestia”».
A Versailles, racconta, è andato non per ammirare le sale dorate che tutti conoscono, ma per esplorare “l’altro” Versailles, quello del Trianon, «dove il re e i nobili cercavano di ricreare la natura selvaggia». Da questa tensione tra ragione e istinto, controllo e mistero, nasce il suo lavoro.
Il mostruoso e il selvaggio, per Pastore, non sono categorie da temere, ma chiavi per comprendere ciò che ci abita. «Ci affascinano perché ci riconosciamo in essi. Sono la parte di noi che non controlliamo, quella che ci spinge oltre i limiti, come accade nel teatro».
Del resto, il teatro per lui non è un semplice strumento narrativo: «Se vuoi raccontare una storia, basta un audiolibro. Il teatro è l’arte della rappresentazione, il luogo in cui ci si interroga sul rapporto tra la realtà e la sua immagine. È specchio, ma anche bugia, eco, mistica. È il luogo dove parlano i morti».
La passione per la scena è nata quasi per caso: «Ero innamorato di un ragazzo che faceva teatro alle medie a Lione. Mi iscrissi al laboratorio solo per stargli vicino, e da lì fu un colpo di fulmine… per il palcoscenico». Dopo un periodo di studi umanistici, tornò al teatro, «perché senza di esso stavo male».
Nel 2018, dopo un periodo a Parigi, iniziò a scrivere per il Théâtre Treize. «Non avevo mai pensato di scrivere, ma ho vinto un concorso con una riscrittura del Simposio di Platone in forma di musical. Da allora, la scrittura è diventata una parte fondamentale del mio percorso».
Oggi vive tra Napoli, Milano e Parigi. Napoli, confessa, lo ha conquistato: «È la città più bella d’Europa. Lì è bello lavorare, ma anche non fare nulla. È una città che ti ricarica».
Parallelamente, conduce laboratori di drammaturgia che definisce ouvroirs, officine creative nate dal desiderio di condividere il proprio metodo. «Ho chiesto ai partecipanti di scegliere un fatto di cronaca che li appassionasse, come la Bestia per me. Poi inventiamo delle contraintes, piccoli esercizi che scatenano l’immaginazione. Credo che condividere il proprio modo di lavorare serva anche a migliorarlo».
La cronaca, per Pastore, è la mitologia contemporanea: «Non mi interessa la cronaca nera, ma il modo in cui un fatto reale può diventare mito. La mia Tragedia coreana, ad esempio, nasce da un caso di infanticidio avvenuto a Seul, ma è una riscrittura di Medea. Parla dell’amore che diventa distruzione, del sentirsi stranieri, non amati. Come Medea, molti di noi si sentono fuori posto, incapaci di comunicare davvero il proprio modo di amare».
Il teatro, dice, è proprio questo: «Un linguaggio che smaschera il linguaggio. Ci fa riconoscere ciò che spesso nella vita non vediamo. Se una persona dice “come stai” in un certo modo, a teatro lo capisci subito. È lì che impari a leggere la verità dietro le parole».
Della sua formazione al Piccolo, sotto la direzione di Luca Ronconi, conserva un insegnamento profondo: «Ronconi ci diceva che l’attore non recita, ma è recitato dal pensiero. La parola nasce da qualcosa che spinge dentro, non si dice: accade. È l’azione a generare la parola, non il contrario».
Dopo anni tra Parigi e Milano, Pastore ha scelto di scrivere di più, di esporsi anche politicamente: «Forse finora non mi ero autorizzato a prendere posizione. Ma oggi sento la necessità di parlare della guerra, del potere, del presente. È difficile restare neutrali».
Riflette infine sulla sua generazione, quella dei trentenni «a cavallo tra l’analogico e il digitale». «Abbiamo conosciuto le biblioteche e le cartoline, ma viviamo immersi nella velocità delle notifiche. Siamo una generazione un po’ sovrastata, ma ancora capace di resistere».
E conclude con una parola che riassume il suo percorso: gratitudine. «Sono grato a chi mi ha accolto, ma anche a me stesso, per avermi autorizzato a scrivere. Non è scontato. È il mio modo di dire grazie – agli altri e anche a me».