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Aprile: Carlo Boccadoro e Alessandra Curia

Carlo Boccadoro / Musica

Dialoga con Thea Romanello

Il percorso atipico di Carlo Boccadoro

Compositore, pianista, direttore d’orchestra, Carlo, che si definisce ‘rockettaro’ giovanissimo, inizia ad amare il jazz grazie a Giorgio Gaslini, suo insegnante al conservatorio “G. Verdi” di Milano dove si è diplomato in Pianoforte e Strumenti a Percussione. La musica classica e la direzione arrivano molto più tardi. La lista delle collaborazioni con artisti di orizzonti differenti è lunghissima e “Sentieri selvaggi’ è il suo progetto che dal 1997 lo vede impegnato nella diffusione della musica contemporanea. Compone un adagio per archi ascoltando la techno.” Ho due parti del cervello completamente distinte, una parte che ascolta che non ha la minima influenza su quello che sto scrivendo e una parte che compone. Non uso il pianoforte per scrivere, scrivo a mano gli spartiti”. Il silenzio? “È una bella invenzione. Il silenzio spaventa le persone perché sono costrette a pensare a sé stesse. Nel silenzio io ci sto benissimo come tutti i musicisti. Nella musica non ci sono immagini, chi non è musicista deve avere le immagini, non riesce a concepire la musica come musica e basta. Per le persone che ascoltano non è così. Bisogna farsene una ragione”.

Carlo, qual è stata la tua prima passione musicale?

Prima di andare al conservatorio conoscevo molto bene la musica rock, a cinque anni collezionavo dischi rock e ascoltavo soprattutto i Beatles e i Rolling Stones.

A che età hai iniziato ad ascoltare la musica classica?

Verso i quattordici anni e va bene così, perché non ho quelle gerarchie che hanno i musicisti classici per i quali la classica è la cosa più importante e poi c’è il resto. Invece per me non è così.

Già da quando avevo cinque anni avevo cominciato a collezionare dischi rock. Il jazz non mi piaceva, è stato Giorgio Gaslini, un mio insegnante del conservatorio, che me l’ha fatto conoscere, me l’ha fatto amare, ed è così che ho scritto anche un libro «Come farsi una discoteca di jazz» e se lo conosco bene è tutto merito suo. Lui ha fatto conoscere il jazz a decina e decina di persone e in quel corso lì c’erano persone che sono diventate jazzisti famosi. Li ha proprio formati. Era la fine degli anni ‘70, un’epoca culturalmente imparagonabile alla nostra, un’epoca di grande fermento.

Quando è arrivata la musica contemporanea nella tua vita?

È arrivata lavorando. Perché quando studi le percussioni, che nascono nel Novecento, si fa praticamente solo musica moderna. In più suonavo un sacco di musica contemporanea e quindi lì ne ho ascoltata a quintali. Suonavo nell’orchestra della Rai di Milano che non esiste più e quindi facevo una marea di concerti di musica contemporanea quindi ho lavorato con tanti compositori che dirigevano come Berio, Penderecki, Lutoslawski e li vedevo dirigere.

La musica contemporanea che non era molto accessibile in questi anni…

Non più, tutte le musiche sono complicate, anche Wagner non è mica facile, prendi una persona per strada, la metti a sentire cinque ore di “Parsifal” e poi mi dici che effetto gli fa. La musica contemporanea è uguale. Se è difficile è perché è un linguaggio che bisogna conoscere, studiare e capire.

C’è una difficoltà reale a diffondere la musica contemporanea?

Tutta la musica è contemporanea quando nasce. Anche Mozart era musica contemporanea. Poi diventa classica se resiste al tempo, ma tutta la musica è contemporanea, anche Monteverdi è contemporaneo.

I problemi ce li hanno avuti anche Stravinskij, Bartók e tutti quelli che oggi consideriamo classici, all’epoca erano considerati avanguardia e la gente li rifiutava. Cinquanta, cent’anni dopo sono entrati nel repertorio e nessuno protesta più. Ma è successo anche con Beethoven che era considerato incomprensibile all’epoca e poi dopo non lo è più stato. È una questione di educazione e quindi di familiarità con il linguaggio: se la si fa sentire più spesso, la gente la capisce e non è più ostica come all’inizio.

È per questo che hai fondato «Sentieri Selvaggi» *…

Abbiamo iniziato quasi trent’anni fa a fare un tipo di musica classica che era alternativa a quella delle avanguardie europee, proponevamo molti autori americani che non si facevano. Oggi è normale fare Philip Glass, Steve Reich, David Lang, Louis Andriessen, James MacMillan, Gavin Bryars, Michael Nyman, Julia Wolfe, Fabio Vacchi …. Ma all’epoca, alla fine degli anni ‘70, inizio anni ‘80, erano autori che non si potevano neanche nominare. Dominava Boulez che io detestavo, Berio e Stockhausen, le avanguardie europee, gli altri non esistevano e invece esistevano eccome… e noi suonavamo quelli e poi dopo col tempo abbiamo recuperato gli altri e adesso interpretiamo anche Boulez, Stockhausen e tanti autori che prima non suonavamo.

Si può dire che nella musica contemporanea non esista la melodia?

Ma no, lo dicono i neo-melodisti. La musica contemporanea ha gli stessi elementi che ci sono in Beethoven o in Verdi ma sono messi in altro modo, hanno una sintassi diversa. Nel romanzo di Joyce o di Calvino non c’è lo stesso linguaggio di “Capitan fracassa” o di Dumas. Son scritti con il linguaggio di adesso, il periodare è diverso. Proprio qui in Francia hanno inventato il nouveau roman, hanno cominciato a distruggere la forma del romanzo tradizionale, quindi, non son romanzi anche quelli? Dopo cinquant’anni, la gente legge Sartre e Robbe-Grillet come dei classici e all’epoca sembrava che avessero sconvolto il mondo della letteratura… come i film di Godard … Ma tutta la musica che ascoltiamo è contemporanea, se la ascoltiamo vuol dire che ci dice delle cose ancora oggi. Mozart, Monteverdi, Palestrina, Beethoven continuano a parlarci, a interrogarci su noi stessi, sul mondo e quindi li possiamo considerare nostri contemporanei.

Tu componi, interpreti e dirigi. Nel passaggio tra la composizione e la direzione di un pezzo cosa accade?

Non tutti i compositori sono interpreti. Ai giovani compositori consiglio sempre di studiare direzione. Ho avuto delle esecuzioni catastrofiche di mie composizioni da parte di direttori che dirigevano i pezzi contemporanei giusto perché lo dovevano fare. Allora, a quel punto, ho scelto di dirigermele da solo però non tutti lo sanno fare. Ci sono dei compositori bravissimi che non sono esecutori di sé stessi. Ma quando sei esecutore di te stesso, e non solo, perché io dirigo anche tantissimi altri tipi di musica, è molto utile per la scrittura perché provando e ascoltando capisci subito se c’è qualcosa di superfluo nel momento in cui scrivi. Quando dirigi i pezzi che hai scritto, ti accorgi se hai scritto delle cose che hanno senso o se potevi scrivere in modo più pratico senza bearti di alcune difficoltà. Le prove sono sempre poche, hai poco tempo e devi scrivere solamente le cose più importanti. Per me, comporre è utilissimo per dirigere.

Quindi la direzione è arrivata in un secondo momento…

Si, assolutamente per caso. Ho dovuto sostituire un direttore che doveva dirigere una mia operina a Verona e che poi non poté farlo. Mi han detto …o la fai tu o non la facciamo… Siccome io avevo praticato tanti anni l’orchestra e avevo osservato più o meno, mi son detto…proviamo … e mi andata bene, poi ho continuato ma non ho fatto studi di direzione orchestrale. Io imparo sempre sul campo, ho imparato lavorando. Non sono neanche diplomato in composizione, ho studiato sette, otto anni al conservatorio, ho fatto gli esami giusti e imparato la tecnica che mi serviva. Il problema è che in quegli anni, non c’era dialogo con i professori. Ho avuto otto professori in otto anni per via del turn over delle cattedre e ogni anno mi trovavo uno diverso quindi alla fine sono andato via.

Ogni professore distruggeva il suo predecessore…

Esattamente. Quindi alla fine ho sviluppato una mia idea indipendente dai miei insegnanti quindi in genere imparo sul campo. Anche con i libri. Ormai ho scritto quindici libri perché per caso ho dovuto pubblicare il primo ed è così che ho imparato.

Carlo, si può dire che la composizione musicale è come la scrittura di un libro?

No, è molto più lunga, più difficile e complicata, perché la musica è un linguaggio molto complesso. Per me è molto più faticoso scrivere un pezzo che scrivere un libro.

Perché la musica è linguaggio, vero?

C’è un dibattito molto ampio e io non sono un linguista. Senz’altro è un mezzo di comunicazione come la scrittura poi se sia un linguaggio o meno, non ho gli strumenti semiotici per dirtelo.

E l’esperienza con gli autistici?

Quello l’ho fatto per un anno. Abbiamo insegnato a dei ragazzi autistici che erano completamente immobili, bloccati ma invece l’unica cosa che attraversava questa parete nera era la musica. Infatti, quando poi ho letto il libro di Sacks “Musicofilia” ho visto che la musica tocca delle zone neurali che nient’atro riesce a raggiungere. Non sappiamo perché però è così. Del cervello non sappiamo quasi niente nonostante i vari libri.

Qual è la tua fonte di ispirazione quando componi?

Le mie composizioni non sono ispirate da niente. Io non scrivo musica che descrive qualche cosa. Io scrivo musica e basta. La musica è solo musica.  Non cerco di descrivere immagini o paesaggi. Poi se qualcuno le sente e ha delle immagini e paesaggi in testa, va bene, ma io non parto mai dicendo…voglio descrivere un tramonto o un viaggio in treno… non descrivo niente. Descrivo solo le note che faccio, cerco di fare le note giuste.

Non mi occupo dell’extra musicale cioè di tutto quello che la gente ci mette in un pezzo quando ascolta. Cioè ad un ascoltatore attivo, qualcosa gli farà venire in mente la musica, no? Quindi poi la gente mi dice…ho visto qua, mi sembra là… ma io non ci ho pensato minimamente a queste cose. Io mi sono occupato solo delle note e dei problemi musicali. Scrivere un pezzo è risolvere dei problemi musicali. Ogni pezzo ha delle difficoltà formali, di linguaggio, son tutti problemi che devi affrontare e risolvere se ce la fai. Per me, è fondamentale capire cosa voglio dire e cercare di dirlo nel modo più chiaro possibile senza preoccuparmi poi del resto.

Le idee che vengono a volte sono microscopiche, può essere anche una nota o due note.

Però trasmetti un messaggio…

Non è un messaggio. Tu devi scrivere un pezzo e un pezzo è un oggetto. È come quella sedia li, com’è quella sedia? Come faccio a farla stare in piedi? Come devo costruirla? Com’è fatta? Non posso dire…mi piace la sedia… e basta. Devo capire come farla, con che materiali realizzarla. E non sempre ho l’oggetto in testa, a volte si, a volte no. A volte lo scopri mentre lavori. Hai un’idea vaga e poi i dettagli si precisano man mano che lavori.

Allora, c’è un’intenzione …

Questa dell’intenzione è un’idea romantica, un’idea ottocentesca. Che uno debba per forza descrivere qualche cosa, per fare i proclami è meglio fare altri tipi di musica. Allora, uno fa una canzone di protesta. Ma un quartetto d’archi di protesta non ha molto senso…

La musica che componi tu a quale movimento pittorico si potrebbe paragonare?

Ormai non esistono più i movimenti da più di sessant’anni, ormai non c’è più niente, ognuno fa per sé, non c’è una corrente. L’ultima forse è stata il neoromanticismo degli anni ’80, la transavanguardia, ma stiamo parlando di mezzo secolo.

Anche l’idea della contaminazione è un’idea vecchia, ogni compositore fa storia a sé, quello che scrivo io quando faccio il concerto il ventinove suonerò altri nove autori ognuno e di quali non ha niente in comune fra di loro (ndr. Concerto del 29 aprile 2025 all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi). I linguaggi sono esplosi, non c’è un linguaggio comune.

Ognuno scrive a modo suo, ognuno con le sue regole, la sua sintassi e il suo modo di risolvere i problemi, non c’è un determinatore comune se non che sono tutti vivi, ma per il resto, esteticamente, musicalmente, alcuni sono antitetici, l’uno il contrario dell’atro ma questa è la contemporaneità, la pluralità di linguaggi. Il problema è trovare una sintesi di linguaggi e ognuno di loro prova a modo suo, c’è chi riesce di più c’è chi riesce di meno a fare una sintesi di vari linguaggi cioè quello classico con altre influenze altre cose. Non c’è più un’estetica comune, un movimento come dici tu o una strada maestra tracciata dai grandi. C’erano Stravinskij, i grandi maestri ma adesso non ci sono più i grandi maestri.  Ognuno è il maestro di sé stesso. Poi se si riesce è bene sennò scrivi un brutto pezzo cosa che comunque è capitato a tutti i grandi. Tutti hanno scritto brutti pezzi anche Schubert però poi ne hanno scritto di meravigliosi

Cosa ti ha apportato la residenza all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi?

Bellissima. Pace, tranquillità. Non hai gli obblighi della quotidianità che ti distraggono, che ti interrompono. Posso passare giornate intere a scrivere. Infatti, ho finito il mio quartetto per archi in metà tempo, in due settimane anziché in un mese e ora sto lavorando a degli altri pezzi.

E Parigi è meravigliosa.  L’ho girata compatibilmente con il fatto che prima volevo finire il quartetto che il mio dovere poi comunque ho già visto parecchie cose. Quello che mi piace è che qui la cultura si vede che è valorizzata.

L’Istituto è un’oasi perché guidata da una persona colta e tutte persone che conoscono la cultura ma in generale lo sto vedendo dall’offerta culturale di qualsiasi tipo di musica. In una settimana c’erano concerti bellissimi di musica brasiliana, di jazz, di contemporanea, d’avanguardia, di musica sinfonica. Qui abitano un sacco di compositori italiani perché a differenza dell’Italia in cui non c’è nessun sostegno per i compositori la società degli autori, lo stato il governo ti aiutano a fare … un mestiere. In Italia il compositore non è un mestiere è un hobby non è preso sul serio. La differenza è abissale.

Cosa consiglieresti ad un giovane che vuole studiare musica oggi?

Di pensarci molto bene perché lo aspetta una vita molto dura tranne quando hai delle residenze artistiche a Parigi ma per il resto non è una vita che consiglierei. Se non senti di doverlo fare lascia perdere. Ti aspetta una vita grama. Io sono fortunatissimo, faccio parte di un gruppo eletto di compositori che vedono la propria musica eseguita in Italia saremo 30 su 5000 compositori.

*(ndr. “Sentieri selvaggi” nasce nel 1997 da Carlo Boccadoro, Filippo Del Corno e Angelo Miotto con lo scopo di avvicinare la musica contemporanea al grande pubblico).

 

Alessandra Curia / Teatro

Dialoga con Thea Romanello

Alessandra Curia, voce inquieta di una generazione in cerca di senso

A soli 23 anni, Alessandra Curia ha già impresso un segno nel teatro italiano, aggiudicandosi il premio alla vocazione 2024 al Festival Hystrio di Milano. L’ha fatto portando in scena due monologhi intensi: uno tratto dallo Stabat Mater di Antonio Tarantino, recitato con accento calabrese, e l’altro dal drammatico Il male sacro di Massimo Binazzi. “Aveva un’aria molto classica, anche se contemporaneo. È scritto veramente bene”, dice lei, spiegando la scelta. Originaria della Calabria, Alessandra ha un’energia che definisce “viscerale e tragica”, ma che si mescola a una luminosità innata. Il suo primo approccio al teatro è precoce e naturale. I genitori la portavano spesso a vedere spettacoli, e una zia lavorava al Teatro dell’Acquario di Cosenza, vincitore del Premio Ubu. “Ho cominciato i corsi lì, ma la vera scintilla è scoppiata a dodici anni, durante un campus estivo.” Al liceo prosegue con le Officine Teatrali e poi arriva l’incontro che le cambia la traiettoria: Francesco Aiello, regista e pedagogo, che la guida con sensibilità e rigore.

Lucia Calamaro, Ljuba e la Callas

Nel suo pantheon teatrale convivono Ibsen, Pinter, Čechov e un amore assoluto per Lucia Calamaro. “Quando ai diciotto anni ho ricevuto in regalo La vita ferma, ho scoperto la drammaturgia contemporanea. Quel flusso slegato ma profondo di parole assomigliava al mio modo di parlare, pensare, vivere.”

In Accademia, un altro personaggio segna una svolta: Ljuba de Il giardino dei ciliegi. Lavorato a lungo sotto la guida di Karina Arutyunyan, Ljuba la costringe a scendere nei toni, nella postura, nella voce. “Camminavo per Milano coi tacchi e i libri in testa per cercare l’energia bassa del personaggio.” La Callas diventa una figura di

riferimento. “C’era qualcosa in quel dolore contenuto, quella sensualità adulta, che mi apparteneva.”

Il podcast teatrale e la verità manipolata

Insieme a tre ex compagni dell’Accademia dei Filodrammatici, Alessandra fonda Divano Project, un collettivo teatrale che debutta con un live podcast sostenuto da Campo Teatrale. Il punto di partenza è una rapina subita da uno di loro, Michele, che diventa spunto per raccontare una storia di amore e incomunicabilità. “Il tema vero è la relatività della verità. Due persone vivono lo stesso evento in modi completamente diversi.”

Il podcast riflette anche le divergenze artistiche del gruppo: chi vuole parlare di femminicidio, chi cerca il dramma, chi pensa alla commerciabilità. E intanto si cita Otello, simbolo della gelosia e della manipolazione, in un gioco meta-teatrale che fonde commedia e tragedia. “Non diamo risposte, mostriamo complessità. Michele non è buono né cattivo. Vogliamo che lo spettatore esca con dubbi, non con certezze.”

Memento mori e la morte come gesto politico

Il secondo progetto in cui è coinvolta, ancora in fase di sviluppo, è un’opera provocatoria: Memento Mori, ideato da Gianmarco Pignatiello. Si tratta di un mockumentary teatrale che parte da un’ipotesi assurda: Elon Musk viene trovato morto nel bagno di un Tex-Mex a Cinisello Balsamo. Intorno a questa morte, immaginaria ma emblematica, si costruisce una narrazione che fonde cultura di internet, archetipi da meme e riflessioni profonde sul potere.

“Pepe The Frog, il meme che abbiamo usato come personaggio, è un simbolo potentissimo. È diventato di tutto: razzista, nazista, violento. È come se la rete avesse vomitato su di lui tutte le pulsioni più oscure. E noi ci siamo chiesti: se potessimo uccidere una figura di potere per cambiare il futuro, chi sceglieremmo?”.

La scelta ricade su Musk, per il gesto del saluto romano e per il mito di onnipotenza che incarna. Ma il centro del progetto non è un attacco personale: Memento Mori è un grido esistenziale, un monito. “Ci interessa l’idea che la morte, oggi, possa essere vista come atto radicale per spezzare un sistema insostenibile. È inquietante e attuale, e ci sorprende quanto spesso la realtà si allinei con la nostra finzione.”

Una generazione che osserva più che agire

Alessandra parla della sua generazione con lucidità disarmante. “Quando ero piccola pensavo che il mondo seguisse una traiettoria logica. Adesso è tutto fluido, precario. Non possiamo immaginare un futuro, e questo crea ansia. Siamo ben formati, ma fermi. Individualisti per sopravvivenza.”

Il Covid ha lasciato ferite profonde, e l’avanzare dei neonazismi, dice, è la reazione a un’epoca di ricerca di libertà e stimoli. “È come se si cercasse un nuovo ordine, una restaurazione. Ma non credo sia quella la soluzione. Dovremmo avere il coraggio di immaginare un altro modo di vivere.”

Il mestiere dell’attrice oggi

Dopo aver terminato l’Accademia dei Filodrammatici, Alessandra si è lanciata nel mondo del lavoro scoprendo che il sogno di fare “solo” l’attrice non le bastava. “Ho capito che non mi interessa arrivare a un punto di felicità assoluta. Mi interessa vivere esperienze, restare fluida. Faccio parte di una band, canto, studio dance-hall. Mi vedo come qualcosa di mobile.”

Il teatro, oggi, non è più quello delle tournée stabili. “Oggi un attore deve ingegnarsi. Fare altro. Insegnare, scrivere, reinventarsi continuamente.” La riforma in Italia che ha incentivato le produzioni a scapito delle tournée ha cambiato tutto. “Gli attori sono costretti a saltare continuamente da un progetto all’altro, senza avere il tempo di svilupparne davvero nessuno. Non puoi più contare più sul lungo periodo, devi essere pronto a cambiare pelle troppo spesso e questo non è rassicurante per il mestiere.”

E cambiare pelle è proprio ciò che ama fare. “Mi piacciono i personaggi lontani da me. Uso oggetti, costumi, piccole trasformazioni per entrare nella parte. Alcuni amici ridono: ‘Hai bisogno della giacca per recitare?’. Sì, ho bisogno della giacca. È il mio passaggio rituale.”

Tra caos e possibilità

Il mondo di oggi, dice, è una giungla di possibilità. “Puoi essere chi vuoi. Donna, uomo, nessuno, tutto. Ma questa libertà può schiacciare. Ogni giorno ti svegli e ti chiedi: che strada prendo?”

Cresciuta in un contesto di benessere, sente una responsabilità verso i genitori, verso quella stabilità che oggi non esiste più. “Siamo cresciuti con l’idea di dover essere perfetti. Di restituire. Ma il mondo è cambiato. Forse non si tratta di scegliere, ma di imparare a navigare.”

Tra tutte le riflessioni, resta una certezza: “Non voglio essere la paladina di nulla. Voglio solo vivere in un mondo in cui mi piaccia stare. E con il mio strumento, il teatro, nel mio piccolo, ci provo.”